Ho giocato a tutte le campagne single-player di Call of Duty: cosa raccontano?

Quando ho iniziato a giocare a tutti i Call of Duty per farne un’analisi delle campagne in single-player sulla falsariga di quella che ho scritto per Assassin’s Creed pensavo sarebbe stata più semplice. D’altronde si tratta di una serie di FPS, la più popolare al mondo, con una durata media di 6–10 ore per campagna, più volte bollata per essere semplicistica e dai valori smaccatamente patriottici\pro-USA, sarà facile farne l’analisi, giusto?

Sbagliato.

Così sbagliato che ho iniziato prima la retrospettiva sui Call of Duty e l’ho messa in pausa per realizzare quella su Assassin’s Creed dicendomi “Beh, perché non includere anche Advanced Warfare?” allora appena uscito. E quindi ho aspettato, ho giocato anche a Advanced Warfare, poi a Black Ops 3 e infine lo scorso Natale, ho completato l’excursus con Infinite Warfare, l’ultimo capitolo disponibile al momento in cui scrivo queste righe. Quest’anno uscirà un il nuovo Call of Duty WW2, un ritorno alle origini per far fronte alle critiche e ai primi segnali di un trend di vendita negativo che hanno caratterizzato Infinite Warfare.

Probabilmente aggiornerò l’articolo con le impressioni su WW2 ma non posso più utilizzarlo come scusa per rimandare la stesura dell’analisi che ho deciso di fare ma che ho procrastinato a causa della sua difficoltà.

Perché difficile?

Perché sotto “l’ombrello” Call of Duty, un brand che negli anni si è sempre più caratterizzato come “twitch shooter online”, si nascondono esperienze in single-player tanto diverse nello stile e nell’approccio da risultare contrastanti tra loro.

Da cosa dipende?

Dal fatto che in base al team di sviluppo responsabile del capitolo si trovano scelte di design e narrative totalmente differenti. È quindi estremamente difficile parlarne come di un’unica entità senza generalizzare ed appiattire quando le scelte “autoriali” risiedono proprio nei dettagli.

Quindi, se per Assassin’s Creed avevo potuto procedere in un’esposizione “cronologica”, qui ho preferito adottare una progressione differente: inizierò analizzando il gameplay in generale per poi concentrarmi sui tre team di sviluppatori che si alterano al timone della serie per approfondirne stile e scelte narrative; al termine dell’excursus cercherò di trarre delle conclusioni e come appendice lascerò il resoconto grezzo degli appunti che ho preso di capitolo in capitolo, così come le ho raccolte, in modo da lasciare un segno della distanza tra l’opinione maturata e quella immediata.

Gameplay

Come già anticipato nell’introduzione, non ci sono punti fissi nella serie se non il label generico di military shooters — che permette comunque di spaziare dal passato al fantascienza — e il gameplay caratteristico. Ma anche qui, qual’è il “gameplay caratteristico”?

All’inizio il gameplay di Call of Duty non era tanto differente da Medal of Honor (a sua volta mutuato da GoldenEye) e il famigerato “Iron sights” — il guardare dentro il mirino per puntare con precisione — era poco più che lo zoom dei suddetti giochi. L’azione non era basato tutto sui fulminei movimenti di reazione e il pacing era più lento nonostante fosse già presente la costruzione cinematografica nell’avanzamento all’interno dei livelli che da questo capitolo in poi rappresenterà le fondamenta di Call of Duty: il backtracking è totalmente assente (siamo lontani sia dalle keycard multicolore di Doom che dagli obiettivi multipli di GoldenEye), si avanza su binari più o meno laschi per mettere in primo piano una serie di sequenze spettacolari di cui essere comprimari.

Nel secondo si assiste a qualche cambiamento: l’energia auto-rigenerante e lo spawning costante dei nemici fino al raggiungimento di determinati check-point aumentano il ritmo di gioco e la sensazione di essere sotto costante pressione. È un’intensità differente dai capitoli che seguiranno ed ha più a che fare con l’immersione narrativa e la rappresentazione della guerra, ma di questo tratteremo dopo.

Il cambiamento fondamentale per quanto riguarda il gameplay è stato nel passaggio tra Call of Duty 3 e Modern Warfare. Giocare a COD3 è piuttosto bizzarro: è uno sparattutto in soggettiva in esclusiva console che si gioca molto male su una console in particolare a causa dei tempi necessari per mirare e sparare; è un’operazione lenta, macchinosa e in generale fastidiosa.

Modern Warfare è il primo a ripensare lo sparatutto in soggettiva per le console, imparando dagli errori del precedente Call of Duty 3.

Modern Warfare, pur non essendo esclusiva console, sembra totalmente orientato a questo mercato tanto che trasforma radicalmente il suo gameplay tramite l’utilizzo degli “iron sights”. Ora premendo il tasto per mirare si punterà automaticamente il target più vicino all’area osservata, trasformando le partite in un frenetico mira-spara-riprendi la mira che nella pratica mi ha ricordato più le partite al caro vecchio Time Crisis che quelle agli FPS tradizionali. Come nel classico sparattutto sui binari, è tutto una questione di ritmo, di quando abbassarsi e di quando alzarsi per sparare con precisione. L’iron sights elimina il fastidio della mira tramite controller, con un logico aumento della fluidità e del ritmo.

Questa vicinanza nel gameplay tra i Call of Duty da Modern Warfare in poi e gli sparatutto da cabinato è — a mio avviso — fondamentale per comprenderne appieno la distanza dagli sparattutto in soggettiva classici: ci si muove lungo un percorso predeterminato, si assistono in prima persona a delle cutscenes spettacolari (dove generalmente tutto esplode), i nemici (caratterizzati solo dalla differenza nell’armamento) entrano nella scena principale da dietro delle “quinte” dello scenario (porte, scale, da dietro un riparo, etc.) e la bravura sta molto nella rapidità a reagire agli stimoli dell’ambiente circostante. L’unica differenza è un po’ di libertà di movimento maggiore, che permette di scegliere da quale angolo e riparo affrontare certe situazioni a scapito della necessità di essere precisissimi con la mira.

Da qui in poi la ricetta rimarrà invariata e, seppur con qualche piccola deviazione (come ad esempio i “poteri” in Black Ops 3 che sembrano mutuati da BioShock, gli intermezzi tattici di Black Ops2 e le sezioni di guida spaziale di Infinite Warfare) e qualche concessione alla libertà dell’utente (le missioni opzionali di Infinite Warfare), rappresenterà l’ossatura sui cui la serie ha raccontato le sue storie.

Ma che storie sono? E come le ha raccontate? Per vederlo dobbiamo entrare nel dettaglio del lavoro dei singoli team.

Infinity Ward — formazione originale

Infinity Ward è lo studio da cui Call of Duty è nato, creato da un gruppo di sviluppatori che precedentemente facevano parte di Dreamworks Interactive al lavoro sulla serie di Medal of Honor.

Call of Duty si distingue sin da subito da Medal of Honor per la sua sperimentazione con il punto di vista: a differenza della serie di Dreamworks, qui la seconda guerra mondiale è ripresa da tre differenti punti di vista, quello dei tre soldati che andremo ad interpretare su fronti diversi ovvero l’americano, l’inglese e il sovietico. Tre punti di vista per dare respiro alla Storia con la S maiuscola, raccontando tre storie con tre ritmi ludici differenti: maggiormente d’azione con l’americano, leggermente più alla Goldeneye con l’inglese e più narrativa con il sovietico.

Call of duty

I tre punti di vista consentono al primo Call of Duty di variare ritmo e location in maniera vagamente simile a quella di un montaggio cinematografico. Tra l’altro, con tre differenti protagonisti non sono costretti a spingere ai limiti della credibilità la trama che quindi può concentrarsi a raccontare tre “micro-storie” di ordinario eroismo nella seconda guerra mondiale.

Delle tre, è l’ultima sezione quella che resta impressa nella mente di chiunque vi abbia giocato ed è quella che fissa lo standard di spettacolarità della serie: nei panni del soldato sovietico le meccaniche di gioco, più evidenti nelle prime due storie, sono ancor più fortemente legate alla progressione narrativa e entrambe sono intimamente legate al movimento — scendi dalla barca; schiva i colpi dai palazzi, arriva fino all’edificio nell’angolo della piazza, etc. — che ne scandisce il ritmo.

Il focus sul movimento sarà quindi centrale in Call of Duty 2 che modifica le meccaniche principali limare ogni aspetto che può contrastare con il ritmo: l’energia è auto-rigenerante (serve ad eliminare il backtracking per trovare un curativo ed è fondamentale per la riuscita registica del principale showpiece del gioco, la presa della Hill 400) e i nemici continuano ad arrivare ad ondate fino a quando non si raggiungono determinate posizioni. In questo modo il giocatore è vincolato a non interrompere il fluire del gioco e della narrazione, guadagnando in spettacolarità ciò che perde in libertà di azione.

Call of duty 2

Questi due meccanismi di manipolazione del ritmo fondano la base su cui Call of Duty si reggerà per tutti i successivi episodi e ciò permette agli sviluppatori di iniziare a giocare più radicalmente con il punto di vista, cosa che accadrà a partire dall’episodio successivo. Fino a qui infatti, il montaggio delle tre storie aveva un sapore maggiormente antologico (pur tirando le fila con un alternanza finale dei tre soldati in CoD2) mentre in Modern Warfare il montaggio si farà sempre più serrato e preponderante.

Ma prima di passare a Call of Duty 4, quali sono le tematiche dei primi due episodi?

SempliceIn linea con la produzione sulla WW2 del periodo a cui appartengono, Call of Duty 1 e 2 propongono una narrativa dalla cornice plausibile (non realistica, in quanto ci troviamo di fronte ad un realismo cinematografico e spettacolare) che celebra l’eroismo di chi ha combattuto nella seconda guerra mondiale e si è trovato a fronteggiare difficoltà indescrivibili.

Le stesse meccaniche di gioco sono volte a questo racconto (difficile non pensare, dopo la Hill 44, “Come ce l’hanno fatta se è stata dura per me nonostante me ne stia seduto davanti a un computer con l’energia rigenerante??”) e si respira la mentalità del “nessun uomo lasciato indietro” in quanto tutto l’impianto narrativo è volto a mostrare come i protagonisti fossero persone comuni costrette dalla Storia in situazioni straordinarie.

L’episodio successivo, Call of Duty 3, che analizzeremo maggiormente parlando di Treyarch (avendo uno stile narrativo marcatamente differente da Infinity Ward), introduce il cambio di punto di vista a favore di storia e non a favore di struttura ma è con Call of Duty 4: Modern Warfare che si sconquassa definitivamente la successione ordinata dei punti di vista degli episodi ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Call of duty 4 Modern Warfare

Il cambiamento è marcato sin dalle prime sequenze, quando vestiamo i panni del Yasir Al-Fulani e finiamo giustiziati senza nessuna possibilità di scampo. Da questo momento in poi, per Infinity Ward, i personaggi sono la finestra con cui assistiamo alla storia e guardiamo i veri protagonisti agire. Se infatti è vero che ci viene concesso di “premere il pulsante” durante alcuni momenti fondamentali della trama, al centro della storia non ci sono i personaggi\telecamera che interpretiamo ma bensì quelli che guardiamo, in particolare John Price.

Il giocatore non è al centro della scena ma è una pedina tra le tante di questi “giochi di guerra” e potere.

È una grande esempio di come far coincidere le meccaniche di gioco con il tema narrativo. Nella trilogia di Modern Warfare i soldati sono solo degli ingranaggi in un macchinario mostruoso molto più grande di loro, pedine manipolate e sacrificate per altri fini. Si introducono tematiche relative al complotto e allo spionaggio (in parte mutate da quelle che sembrano le principali fonti di ispirazione stilistica, ovvero “Spy Game” di Tony Scott e “Black Hawk Down” di suo fratello Ridley) mentre la morale che sembra emergere dal finale è quella della brutale vendetta personale.

Call of duty modern warfare 2

Questa visione si fa esplicita in Call of Duty: Modern Warfare 2 nella tanto discussa missione No Russian: possiamo agire o non agire (e se agiamo 1. facciamo moralmente peggio e 2. ci sentiamo quasi presi in giro dagli sviluppatori che sembrano sfotterci per la nostra incapacità di usare la nostra testa e non sparare) ma il risultato rimarrà invariato in quanto siamo solo l’ingranaggio per muovere il piano.

È una filosofia di design forte, le cui conseguenze estreme trovano il loro compimento estremo nella (IMHO affascinante) campagna multiplayer-only di Titanfall (sviluppato da ex-componenti team Infinity Ward originale dopo la rottura con Activision) dove ogni giocatore è un soldato che combatte gli scontri minute-by-minute mentre gli eroi NPC della storia portano avanti la vicenda.

La conclusione della trilogia, Modern Warfare 3, porta ancora le tracce di questa filosofia di design, nonostante l’abbandono dei creatori originali nelle fasi iniziali della sua lavorazione. Dal punto di vista della nostra analisi ho trovato più corretto inserirlo in questa sezione anche se si tratta di un titolo praticamente a metà con Sledgehammer Games, in quanto mantiene il filo tematico con i capitoli precedenti.

Call of Duty Modern Warfare 3

Infatti, in Modern Warfare 3 si trova una delle concretizzazioni più interessanti dell’uso del personaggio come punto di vista, ovvero un vero e proprio montaggio realizzato durante una delle sequenze principali: durante la sequenza a Parigi il giocatore passa dalla battaglia a terra al supporto aereo con delle fluide transizioni di montaggio, con un ritmo che, accelerando costantemente rende la concitazione della battaglia.

È il compimento del lavoro fatto fino a questo momento ed il suo canto del cigno: nelle mani di altri sviluppatori, Call of Duty si concentrerà sulla storia lineare di un singolo personaggio dall’inizio alla fine e il tentativo sarà quello di mettere il giocatore sempre nei panni del protagonista (cosa che un po’ emerge nel finale di MW3 quando vestiamo i panni di Price e viene da chiedersi se gli originali Infinity Ward avrebbero fatto la stessa scelta stilistica).

Infinity Ward — Formazione Attuale

Nei due titoli finora realizzati della nuova formazione di Infinity Ward non troviamo traccia della ricerca stilistica notata nei titoli precedenti e, complice anche l’inizio e immediata interruzione della serie Ghosts, sembra di avere a che fare con uno studio che sta ancora cercando la propria “voce”. Al momento l’unico “trait d’union” nelle narrazioni sembrerebbe essere il “cambio di opinione” che subiscono i protagonisti nel corso della loro evoluzione.

Call of Duty: Ghosts

Call of Duty: Ghosts ha un tono da “avventura per ragazzi” con tutta una serie di elementi pop: il mondo futuro distopico, la figura paterna, il rapporto con il cane e il fratello, un gruppo militare quasi sovrannaturale/mitico e il cattivo che è quello che anche l’eroe potrebbe diventare se seguisse le sue ossessioni. In Ghosts, ad eccezione di un prologo nello spazio, manca completamente il cambio di punto di vista inteso come cambio di personaggio e possiamo solo assistere ad un abbozzo di cambio di prospettiva morale: dopo aver combattuto contro l’antagonista principale per tutto il gioco, alla fine veniamo sconfitti e sottoposti a tortura e lavaggio del cervello; tutto sembrava portare ad un seguito dove avremmo combattuto per la fazione opposta ma purtroppo lo spunto è andato sprecato dalla decisone di non proseguire la serie.

Call of Duty: Infinite Warfare

Accantonato Ghosts, Infinity Ward è andata avanti con Call of Duty: Infinite Warfare, uno dei titoli più ingiustamente criticati della serie, nonostante il fatto che sia uno dei più divertenti da giocare. Lasciando da parte le critiche legate all’ambientazione (nonostante la campagna di marketing abbia lavorato a molto per giustificarla, in quanto basato su reali speculazioni di ciò che la guerra potrebbe diventare nel futuro più o meno prossimo), dobbiamo notare come il titolo segni, dal punto di vista tematico, un momento particolare all’interno della serie. Con l’arco narrativo del protagonista principale assistiamo al totale ribaltamento della filosofia che sottostava ai giochi ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale: se lì nessun uomo poteva essere lasciato indietro, qui viviamo una storia che parte da quelle premesse per mostrare come il sacrificio dei propri uomini sia necessario (e incentivato dagli stessi) per sconfiggere i propri avversari e salvare vite umane.

Certo, il cambio di filosofia è “attenuato” dal cambio di tipologia dei protagonisti, in quanto nei capitoli ambientati nella Seconda Guerra Mondiale i soldati erano persone normali catapultate in situazioni eccezionali mentre qui ci troviamo invece a che fare con militari di professione, ultra-addestrati e specializzati (un cambio che sembrerebbe spinto dal successo delle modalità multiplayer dove si è sempre il best of the best) e quindi il sacrificio dovrebbe essere visto come parte del loro addestramento e “missione di vita”.

Nonostante ciò, si fa fatica a non pensare a come questo, assieme all’assolutizzazione tra buoni e cattivi — i nostri e i loro — che è messa in scena nella narrazione principale, cozzi con le storie precedentemente raccontate nella serie classica e in Modern Warfare.

Dal punto di vista dello storytelling sono ormai del tutto abbandonati i punti di vista multipli a favore dell’immedesimazione con un unico personaggio, dando quindi l’impressione che lo “stile Treyarch” abbia avuto la meglio su tutto il resto.

Ma cosa intendo per stile Treyarch? Andiamo a vederlo.

Treyarch

Call of duty: United Offensive

Treyarch inizia a lavorare su Call of Duty ancora prima di essere Treyarch. Infatti una parte del team, sotto il nome di Grey Matter Interactive, lavora a Call of Duty: United Offensive, l’espansione del titolo originale. Sin da questo primo contatto si notano alcune caratteristiche di quello che diventerà il loro stile distintivo.

In United Offensive si respira un’aria differente rispetto al capostipite di Infinity Ward: nonostante la necessità di aderire al modello originale, il respiro è più epico, più smaccatamente cinematografico e c’è un maggior sforzo per far identificare il giocatore con il proprio personaggio.

Call of duty: big red one

Ecco quindi che alla prima occasione utile, Call of Duty 2: Big Red One per PS2, Treyarch pone le basi per quello che sarà il suo stile:

  • si vive un’unica trama da un unico punto di vista, un solo protagonista con cui immedesimarsi dall’inizio alla fine dell’avventura
  • il tono è quello di un racconto pulp che prende però le mosse dalla realtà storica (in questo caso le avventure della compagnia Big Red One che dà il titolo al gioco)
  • l’approccio è diretto, senza le sperimentazioni narrativo-linguistiche di Infinity Ward; qui si è al centro della vicenda, non la si guarda da co-protagonisti
Call of Duty 3

Treyarch si concentra sui personaggi come perno di tutti i suoi racconti anche quando lo studio è costretto ad adottare il modello narrativo a “personaggi multipli” di Infinity Ward: in Call of Duty 3, Treyarch evita diverse delle soluzioni narrative dei predecessori inserendo addirittura delle più tradizionali cutscenes, meno immersive ma più dirette per la creazione di un personaggio.

Call of duty World at War

Treyarch arriva a sviluppare la sua serie caratteristica a partire da Call of Duty: World at War. Da questo episodio, lo studio ha costruito un’unica grande storia che continua ad evolvere ad ogni capitolo della serie Black Ops, in quello che è ormai diventato un universo parallelo costruito su esagerazioni pulp, teorie del complotto e fantascienza distopica.

Dopo la partenza dal gusto avventuroso e positivo di “Big Red One” i titoli Treyarch iniziano ad assumere sfumature più dark già con Call of Duty 3 per diventare pura cospirazione e paranoia con World at War e Black Ops.

In questa serie il singolo soldato non vale nulla ed è abbandonato in un mondo caotico in cui il nemico può essere chiunque, anche il proprio mentore e miglior amico. Ma a differenza dei titoli Infinity Ward, qui il soldato non è una pedina, è un protagonista e quindi deve diventare una sorta di incrocio tra Rambo e James Bond per sopravvivere e sconfiggere i propri nemici, che sono sempre larger-than-life, nonostante non ci sia possibilità di redenzione né speranza per nessuno.

Call of duty Black Ops

La serie Call of Duty: Black Ops tocca tutti i possibili stereotipi delle storie militari con uno stile “bombastic”, tra Micheal Bay e il trash anni ‘70-’80 e utilizza talenti dell’entertainment in tutti i suoi comparti (recitazione, scrittura, musica, etc.) per ottenere l’effetto più spettacolare possibile. Siamo distanti dalla plausibilità di Infinity Ward, qui siamo nel campo dell’esagerazione cinematografica più totale che porta alla realizzazione di ogni possibile power fantasy (anche quella di vestire brevemente i panni di un nemico invincibile, come accade in Black Ops 2 o quella di uccidere Fidel Castro, come accade in una criticatissima sequenza del primo Black Ops).

E come ogni power fantasy vende come il pane: Call of Duty: Black Ops è stato il videogioco più venduto di sempre fino all’arrivo di GTAV e la serie Treyarch è una garanzia per una grossa fetta dei giocatori di CoD nonché il modello da seguire anche per i rinnovati Infinity Ward.

In questo scenario, come si posiziona Sledgehammer Games?

Sledgehammer Games

Call of Duty: Advanced Warfare

Difficile dirlo guardando a Call of Duty: Advanced Warfare, primo titolo ufficialmente firmato da Sledgehammer Games. Giocandolo sembra essere di fronte ad un remix dei temi sia di Treyarch che di Infinity Ward ma con un outlook più positivo e “solare” rispetto ai primi due. I personaggi sono generalmente ben delineati (nonostante la presenza di un Kevin Spacey un po’ typecasted e quindi poco credibile), la vicenda fantascientifica prende spunto da una situazione già delineata nella nostra realtà e la “boy’s own adventure” del protagonista si conclude con una nota positiva e poche ombre irrisolte.

È un inizio pulito, con mano sicura, che potrebbe trovare sviluppi interessanti in Call of Duty: WW2 in uscita quest’anno.

Conclusioni

Quindi, dopo aver giocato a tutti gli episodi, per cosa considero importante Call of Duty? Principalmente per tre cose:

  • la modellazione del linguaggio videoludico nell’utilizzo di punto di vista e montaggio
  • la creazione di una first-person experience più che un first-person shooter, dove il giocatore è più spettatore che attore
  • la narrazione di differenti punti di vista su guerre e conflitti, sacrificio, dovere ed eroismo spesso in contrasto tra loro

Call of Duty è un fenomeno di popolare, un campione d’incassi annuale da dieci anni a questa parte nonché il principale prodotto culturale di massa in cui si parla della guerra, tema che, per quanto mediaticamente pervasivo durante tutto questo periodo, non ha avuto la medesima risonanza “da botteghino” in altri settori (con l’eccezione forse di American Sniper, i film sull’argomento non hanno sicuramente avuto gli stessi incassi e quindi la stessa capillare diffusione di un qualsiasi capitolo della serie distribuita da Activision).

Inoltre, snobismo nerd a parte, è la serie che ha aiutato a plasmare le modalità della narrazione videoludica alla pari di giochi — apparentemente— diametralmente opposti come i walking simulator a là Gone Home.

È sempre intelligente? No, ma come ogni buona narrazione popolare è uno specchio sempre attuale sui gusti e sulle idee del pubblico, tanto che quest’anno sarà interessante scoprire come 10 anni (World at War è uscito nel 2008) avranno cambiato la percezione della Seconda Guerra Mondiale.


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Da sempre appassionato di videogiochi, giochi da tavolo, fumetti, libri e cinema, ho deciso di aprire un blog dedicato a tutte queste mie manie per condividerle con spiriti affini!


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