È proprio di questa settimana la notizia che Ubisoft salterà l’appuntamento annuale con Assassin’s Creed per la prima volta dal lontano 2009, quando uscì Assassin’s Creed 2. Mi sembra quindi il momento giusto per terminare e pubblicare questa mia serie di osservazioni che ho maturato durante una “maratona videoludica” (dal 12 settembre 2015 al 3 gennaio 2016 per essere precisi) che mi ha visto impegnato a completare nell’ordine di uscita tutti gli Assassin’s Creed usciti su Ps3 e Ps4 e le loro relative espansioni.
Indice
- 1 Perché l’ho fatto?
- 2 A cosa ho giocato?
- 3 Procediamo con ordine:
- 4 1. Assassin’s Creed
- 5 Assassin’s Creed II
- 6 Assassin’s Creed Brotherhood
- 7 Assassin’s Creed Revelations
- 8 Assassin’s Creed III
- 9 Assassin’s Creed III: The Tyranny of King Washington
- 10 Assassin’s Creed: Liberation
- 11 Assassin’s Creed IV: Black Flag
- 12 Assassin’s Creed: Black Flag — Aveline Mission
- 13 Assassin’s Creed IV: Freedom Cry
- 14 Assassin’s Creed: Rogue
- 15 Assassin’s Creed Unity
- 16 Assassin’s Creed Unity: Dead Kings
- 17 Assassin’s Creed Syndicate
- 18 Assassin’s Creed Syndicate: Jack The Ripper
- 19 Ma quindi, cosa ne penso?
Perché l’ho fatto?
Credo di essere uno dei pochi videogiocatori sul pianeta a non aver giocato ad un episodio della serie fino al 2015, nonostante i videogiochi siano la mia principale passione. Non l’ho fatto proprio per la forte serialità della serie: ogni volta che stavo per iniziare un capitolo ne veniva annunciato uno nuovo e mi dicevo “Vabbé, aspetta che esca anche quello nuovo e poi li giochi tutti”. Aspetta che ti aspetta sono passati sei anni.
Ho visto la serie dall’esterno, attraverso gli occhi e le discussioni dei miei amici, dei recensioni e delle community online, e ho percepito la sua trasformazione da “il gioco più figo del mondo” (2009 — Assassin’s Creed 2) a “tutto ciò che c’è di sbagliato nei giochi ad alto budget” (2014 — Assassin’s Creed Unity), con tanto di articoli che dettagliano quando è stressante lavorare in uno dei numerosi team di sviluppo della serie e quanto sia più soddisfacente lavorare nel mondo indie.
Ora la serie principale è in fase di “riesame” (ma comunque degli spin-off sono arrivati sul mercato e il film è previsto per fine anno) ed è quindi il momento ideale per guardare a ciò che è stata finora.
Questo però non potevo saperlo quando ho iniziato a giocarli a settembre.
Quello che volevo fare era “semplicemente” capire le meccaniche narrative e di gameplay che hanno reso Assassin’s Creed una delle più popolari e fortunate serie di videogiochi al mondo, una di quelle serie che hanno reso popolare l’intrattenimento digitale anche alle persone che hanno una console solo per giocare all’ultimo titolo sportivo.
Ci sono riuscito?
Non lo so. Ma mi sono divertito un sacco.
A cosa ho giocato?
Ho completato tutte le principali storyline dei titoli della serie, le storyline dei DLC e diverse delle side-quest. L’ultimo capitolo, Syndicate, l’ho completato al 100%.
Ho affrontato nell’ordine:
- Assassin’s Creed
- Assassin’s Creed 2
- Assassin’s Creed: Brotherhood
- Assassin’s Creed: Revelations
- Assassin’s Creed 3
- Assassin’s Creed: Liberation
- Assassin’s Creed 3: The Tyranny of King Washington
- Assassin’s Creed 4: Black Flag
- Assassin’s Creed 4: Freedom Cry
- Assassin’s Creed Rogue
- Assassin’s Creed Unity
- Assassin’s Creed Unity: Dead Kings
- Assassin’s Creed Syndicate
- Assassin’s Creed Syndicate: Jack The Ripper
Procediamo con ordine:
1. Assassin’s Creed
Il primo capitolo è un gioco che “mi è cresciuto” con il tempo. All’inizio non ne sono rimasto particolarmente impressionato ed ero un po’ stufo delle parti ripetitive. Poi giocandoci certe meccaniche mi hanno affascinato sempre di più fino ad appassionarmi sul serio.
Ha un carattere molto sperimentale sia nelle meccaniche di gameplay che nel modo di raccontare la storia:
- nelle meccaniche sembra più un Hitman in uno stage permanente più che un vero open world game. L’idea di un’investigazione semi-facoltativa prima di un colpo sarebbe stata fantastica se non l’avessero annacquata da un’eccessiva ripetitività e ridotta ad un insieme di mini-game. Gli omicidi in sé sono invece sempre molto fighi, dando spesso anche la possibilità di approcciarsi in modi diversi per raggiungere lo scopo. Le fughe sono sempre elettrizzanti, e si sono rivelate praticamente la parte che aspettavo maggiormente ad ogni partita.
- nelle modalità narrative è interessante nella scelta di lasciare il controllo nelle mani del giocatore durante le sequenze narrative così come lo è il contenuto dei dialoghi post-mortem tra Altair e le sue vittime. Stando ad una recente intervista di Venture Beat a Jade Raymond, la prima scelta è stata proprio un diktat sperimentale dell’ufficio centrale “no cinematics, no scripted events, never take away camera control from the player”. Sul secondo elemento non ho trovato molti commenti a riguardo ma ecco ciò che penso: le recensioni dell’epoca hanno criticato il gioco perché rivelava il twist narrativo della “doppia realtà” (la realtà e l’Animus) nei primi cinque minuti di gioco ma tutto ciò non è un twist (semmai è la cornice che permette di razionalizzare una cosa prettamente videoludica come “la barra dell’energia” di un personaggio con l’escamotage della sincronizzazione) e non è per nulla importante. L’importante sono le sfumature di grigio dei dialoghi post-omicidio con le vittime: in questi momenti vi è il cuore narrativo del gioco ed il suo valore come opera, ovvero nel mettere in dubbio i comandamenti di un’organizzazione che dice di volersi far carico della pace nel mondo mostrando anche il punto di vista e i perché di chi sta dalla parte opposta. È nei dubbi che questi dialoghi pongono, in questo voler scardinare i pilastri morali di una sorta di supereroe ante-litteram che Assassin’s Creed da il suo meglio. Altair non è quindi un “punisci cattivi” tutto d’un pezzo ma un eroe che dubita, così come dovrebbe dubitare di tutto e di tutti un giocatore che segue attentamente la trama.
Assassin’s Creed II
Il preferito dai fan della serie. Devo ammettere che soprattutto le prime ore sono una vera droga: il mix di azione fluida, micro-missioni costanti, atmosfera convogliata da musica e grafica nonché da un plot semplice ma coinvolgente ti trascinano in un vortice ludico e non ti lasciano più andare.
Per molti versi il primo e il secondo capitolo sono due giochi molto distanti e infatti la sensazione, giocandoli di seguito, è che sia rimasto solo lo scheletro del primo episodio e tutto il resto sia cambiato.
Partiamo dallo stile e dal gameplay
Lo stile grafico è meno realistico e più ispirato all’animazione americana, e questo contribuisce ad aumentare l’empatia dei personaggi e allo stesso tempo rendere il tutto più “senza tempo”. I personaggi sono più “gommosi” – come in un film della Dreamworks – cosa che contribuisce a rendere l’idea di fluidità del movimento e la camera riprende l’azione da un punto di vista più distante del predecessore, aumentando allo stesso tempo il respiro e la sensazione ludica.
Il gameplay è più “semplice e lineare”, trasformando la struttura delle missioni: anche qui dobbiamo compiere una serie di azioni prima di uccidere il nostro obiettivo (generalmente uno per sequenza) ma queste non sono più opzionali come nelle sequenze investigative del primo capitolo ma sono tutte obbligatorie e totalmente integrate nel procedere della trama. In questo modo non si hanno tempi morti e si hanno delle deviazioni open-world solo se lo si vuole.
Mi sono piaciute un sacco le tombe degli assassini, dei veri e propri livelli a sé stanti dove gli sviluppatori si sono divertiti a giocare con i sistemi del gioco, dallo stealth al platforming. Col senno di poi a quanto pare non sono stato l’unico, visto che arrivando a Revelations le tombe acquistano un’importanza centrale.
Le due missioni DLC “La Battaglia di Forlì” e “Il Falò delle Vanità” iniziano il trend positivo della serie di AC su questo tipo di contenuti, portando delle variazioni interessanti al gameplay, con l’aggiunta dalle battaglie di massa e di alcune missioni di (finalmente) vero stealth.
L’unica cosa che non ho molto apprezzato è stata la deriva “alla Wind Waker” che prende l’ultima missione ma per fortuna stavo già collezionando le pagine del Codex per conto mio, quindi non ho sofferto molto.
Arriviamo infine all’elemento che, secondo me, pone questo Assassin’s Creed su un piano totalmente differente rispetto al primo episodio: lo sviluppo narrativo.
D’altronde se il predecessore non aveva fatto breccia in molto cuori mentre il secondo è ancora oggi indicato come il miglior capitolo della serie con il miglior protagonista di sempre, un motivo ci sarà, giusto?
Giusto.
Rispetto al primo capitolo, la prima cosa che salta all’occhio è la semplificazione morale della trama. Se in Assassin’s Creed Altair doveva districarsi tra molteplici dubbi, inganni e tentennamenti morali, qui tutto è più semplice e lineare, quasi banale: gli assassini sono i buoni dall’inizio alla fine (senza defezioni o tradimenti o doppiogiochisti) e i templari sono i cattivi; ucciderli è cosa buona e giusta e non c’è un altro punto di vista sulla questione. I dialoghi post-mortem non servono a mostrare altri punti di vista ma solo a sottolineare ciò che già sappiamo: Ezio è nel giusto e tutti gli altri sono corrotti-malvagi-psicotici.
Assassin’s Creed 2 è una power-fantasy da manuale: una storia di vendetta che porta un seducente nobilotto a diventare il gran capo degli assassini, il top del top!
È stato il modo migliore per far decollare la serie verso un pubblico mainstream (gli assassini non sono molto differenti da un qualsiasi team di supereroi, se non per il fatto che uccidono) e il gioco da questo punto di vista non fallisce di intrattenere. È solo che la componente morale donava un non-so-ché tutto particolare, un’aurea speciale in un periodo dove gli eroi, anche quando oscuri e tormentati, non cadono mai dalla parte sbagliata.
D’altronde, lo stesso creatore della serie, Patrice Désilets, in un episodio della serie Devs Play descrive le due differenti esperienze con i due giochi: il primo episodio è un esperimento, il secondo è un gioco vero e proprio.
E la sensazione ludica permea tutto il gioco, con una perenne ironia ad appuntare tutto il gioco (come la presentazione dello Zio Mario) combinata con la grande atmosfera da setta e complotto tipica del periodo di Macchiavelli che il team è riuscito perfettamente a ricostruire: tra ritrovi notturni, visite alle catacombe e riunioni segrete è difficile non rimanere coinvolti.
Altro colpo di genio ludico è rappresentato dalla scelta delle location: non sono distanti e semi-sconosciute come nel primo gioco ma iconiche e a “portata di turista”. Inoltre, a differenza di quanto avviene con altri episodi della serie, l’architettura delle città si presta bene alle meccaniche di gameplay: vie e vicoli sono vicini, non separati da ampie strade, rendendo il parkour rapido e coinvolgente per gli spostamenti mentre l’utilizzo di Venezia come location per la parte più ampia apre a soluzioni inedite rispetto al primo capitolo — fuggire da un gruppo di guardie inferocite tuffandosi nei canali e nascondendosi sotto i ponti non ha veramente prezzo.
È un gran gioco che merita tutta la fama che ha, molto divertente e coinvolgente anche se privato della sperimentazione dell’originale.
Assassin’s Creed Brotherhood
Brotherhood è il capitolo che segna l’addio del creatore Patrice Désilet alla serie e che ora viene ricordato da alcuni come il punto più alto di Assassin’s Creed. All’epoca dell’uscita la musica era differente e segnò l’inizio dell’accusa più frequente mossa ai nuovi capitoli della serie: è il copia&incolla del capitolo precedente.
Dopo averlo giocato posso dire che le accuse sono infondate e che siamo molto distanti per gameplay, ritmo e struttura. Si, il gioco ricicla le meccaniche base e determinati asset grafici ma rielabora quanto introdotto nel secondo capitolo con maggior sicurezza.
Inizia con uno storytelling molto più cinematografico rispetto al 2: siamo più dalle parti di Uncharted che in un open-game. La sceneggiatura calca ulteriormente la mano sull’umorismo: sembra che gli sviluppatori si siano visti Uncharted 2 e l’abilità comica di Nolan North e abbiamo deciso di infonderla anche nelle sequenze fuori dall’Animus.
Poi il gameplay torna sui canoni più tradizionali della serie ma si nota una decisione radicale rispetto ai precedenti episodi: è ambientato in un’unica città. Questo gli permette di essere l’episodio più ritmicamente compatto e ironicamente “più aperto” della serie: le sequenze si svolgono in modo molto più non-lineare perché come giocatore sei spinto ad agire in modo meno lineare.
Le sequenze sono meno sincopate e lasciano molto più spazio per il divagare nella città, soprattutto all’inizio e alla fine della sequenza. C’è una quantità enorme di cose da poter fare ed è facile perdere il focus delle cose più strettamente necessarie per il procedere nella campagna. C’è però anche da dire che quasi tutto è molto divertente, quindi perdersi non è un male. 🙂
Il layout della mappa è un altro punto a favore di questo open-game: gli sviluppatori sono stati intelligenti a sfruttare Roma nelle sue tante caratteristiche e sfaccettature, dai quartieri che si sviluppano a più livelli d’altezza ai resti dell’antica Roma, passando per le antiche catacombe, in modo da dare una varietà enorme e non smettere mai di stupire. Insomma, scalando un palazzo ed uscendo sui tetti si ha sempre una sensazione “di respiro” veramente ineguagliabile.
Quando invece si è dentro la missione, obiettivi e sotto-obiettivi si susseguono senza sosta, più a fare da check-point e ad assicurarsi che il tutto prosegua in maniera fluida che altro. Viene data al giocatore molta più libertà d’azione e ciò fa si che il modo di affrontare le varie missioni uno lo “senta proprio”. In altri open-game ho spesso la sensazione di essere pilotato, di avere l’illusione di scelta ma che in realtà ci sia un solo modo per completare la missione. Qui invece è uno dei rari casi in cui mi sono sentito libero di affrontare le situazioni con tutti gli strumenti a mia disposizione (balestra e aiutanti assassini primi su tutto!). Non a caso, ho bruciato quasi subito le missioni di conquista delle torri perché mi divertivano un sacco, costringendomi ad usare lo stealth e le caratteristiche del gioco per portare a termine gli omicidi e distruggere le relative torri.
A sottolineare questa “apertura” è interessante il modo in cui è stata introdotta la differente percentuale di sincronizzazione (50% o al 100% in base a dei parametri richiesti): non solo innalza la sfida (anche se non lo si vuole si è portati a tentare di ottenere il 100%) ma anche ti permette di “comportarti come Ezio”. Seguendo i parametri per il 100% si ha l’impressione di interpretare un ruolo, di compiere la missione come l’avrebbe compiuta il personaggio principale, cosa che in un gioco più scripted sarebbe stato obbligatorio e, di conseguenza, con un livello di difficoltà più basso. Essendo qui una libera scelta, gli sviluppatori si sono “permessi” di rendere più difficile seguire la sceneggiatura.
Il combattimento infine è da power-fantasy totale: è molto più rapido e aggressivo grazie all’introduzione delle kill-streak, alla maggior reattività degli avversari e alla correzione del sistema di controllo. È meglio dei capitoli precedenti ma ha la pecca di avere un livello di sfida molto basso che porta a trasformare ogni missione in un “tanto, se mi vedono, uccido tutti”. Se non ci fosse la “penalità psicologica” della sincronizzazione bassa si potrebbe trasformare qualsiasi missione in una strage e completare ugualmente il gioco.
In sostanza è la seconda volta in un open-game che mi è capitato di perdermi a fare le varie missioni secondarie (la prima volta mi era successa con Sleeping Dogs). Questo anche perché diverse delle missioni secondarie (come quelle dedicate alle armi di Leonardo) sono dei veri e propri livelli a sé stanti dove il gioco dà il meglio di se nel costringere il giocatore a sfruttare tutti i sistemi di gioco, mentre la meccanica della ricostruzione di Roma è decisamente compulsiva (praticamente il minigioco della villa di Assassin’s Creed 2 portato però all’ennesima potenza).
In questa fase del mio playthrough è stato sicuramente è il mio capitolo preferito (nota a margine, non so perché ma mi ha fatto pensare tantissimo ai Tomb Raider classici per PsOne. Boh!) ed è, a mio avviso, il migliore degli Assassin’s Creed classici.
Assassin’s Creed Revelations
Altro capitolo, team di sviluppo privato del creatore originale, e altra serie di evoluzioni che saltano all’occhio quando si giocano i capitoli uno di seguito all’altro.
Balza subito all’occhio la grafica, parzialmente più realistica rispetto ai due precedenti capitoli ma, rispetto al primo — di cui si torna alle ambientazioni —, è tutto molto più vivo e colorato: dominano i toni oro e i colori sgargianti che rendono l’ambientazione estremamente affascinante e la città viva.
A livello di trama (estremamente criticata nelle recensioni dell’epoca), ho trovato molto bella l’atmosfera evocata di “straniero in terra straniera”, con Ezio impegnato a investigare in una terra lontana senza le persone di cui si è circondato tutta la vita. I complessi intrighi di palazzo, con le loro meccaniche “impenetrabili”, sottolineano bene la situazione in cui si è cacciato il protagonista, immischiato in una realtà che non conosce a da cui, come gli viene suggerito da più di un personaggio, farebbe meglio ad andarsene. I recap a fine sequenza (tecnica da serie-tv?) in cui Ezio si confessa scrivendo alla sorella sono tremendamente d’atmosfera e mi è piaciuto molto il modo in cui le trame di Altair e Ezio finiscono per unirsi in una conclusione soddisfacente.
Il gioco prosegue sulla via della spettacolarizzazione cinematografica anche a livello di gameplay: la prima sequenza è mozzafiato, con un ritmo serrato e un continuo cambio di inquadrature che accentua gli aspetti thriller del gameplay (in particolare i momenti in cui ci si arrampica su una struttura mentre si è sotto tiro da parte dei fucilieri).
Questi elementi cinematografici, che in Brotherhood si limitavano principalmente alla prima e all’ultima sequenza, sono integrati in ogni sequenza principalmente tramite le missioni di esplorazione delle tombe. Durante il mio playthrough, questo si è rivelato un altro elemento di novità molto interessante: è come se gli sviluppatori si siano accorti che le tombe erano alcuni dei livelli più interessanti sia del 2 che di Brotherhood e le hanno rese obbligatorie. Questo spezza molto il ritmo e bilancia la trama del gioco tra quest personale del protagonista e intrighi di palazzo (criticati dai recensori americani ma invero piuttosto interessanti) e permette agli sviluppatori di unire le parti più open-game delle missioni legate alla trama “di palazzo” con delle sequenze più fortemente scripted e, in un certo senso, da platformer old-school delle tombe.
È un bene che le sequenze più scripted siano sempre divertenti e emozionanti (tutto l’ultimo terzo di gioco, dall’incendio del porto, la Cappadocia e l’inseguimento finale, mi ha veramente esaltato) e con un’ottima regia. Da un certo punto di vista, se già con Brotherhood ho spesso ripensato ai Tomb Raider originali, con questo mi sono proprio tornati in mente con prepotenza, assieme (ancora una volta) alla serie di Uncharted.
Interessante, anche se sempre un po’ sottosviluppato, l’utilizzo delle fantascienza per legare i vari capitoli della saga. A questo punto della maratona mi dicevo “Vediamo dove andrà a parare” ma in questo capitolo, a mio avviso, era evidente un’interesse preponderante nei confronti della vicenda di Ezio piuttosto che del filone di Desmond.
A livello di gameplay ci troviamo di fronte ad un affinamento del precedente capitolo:
- il combattimento è un’evoluzione di quello di Brogherhood: è ancora più aggressivo e veloce e ora, tutti gli avversari hanno bisogno di tecniche differenti per essere sconfitti
- viene introdotta una meccanica da tower defense, criticatissima in tutte le recensioni, ma che non mi ha minimamente toccato perché non sono mai stato costretto a doverci giocare se non durante il tutorial. È stata però un vero e proprio deterrente all’uscire dalla narrazione principale del gioco. Infatti qui, a differenza che in Brotherhood, non mi sono messo a sbloccare tutti i negozi e a comprare tutti i luoghi storici: non ne ho avuto bisogno e mi avrebbero distolto troppo dal plot principale. Probabilmente era l’intenzione dei designer: mantenere un open game ma in parte costringerti a seguire la trama principale; una volta terminata quella, puoi aggiungere tempo al gioco sbloccando tutte le cose secondarie e quindi il tower defence aiuta a spezzare il ritmo di progressione.
- a livello di “strumenti” in mano al giocatore, il nuovo rampino permette di velocizzare le arrampicate sui palazzi ma ho usato pochissimo la balestra (di cui invece ho abusato in Brotherhood). Non sono convinto di averla usata di meno solo per il design della città (che comunque porta ad utilizzarla di meno) quanto piuttosto che il fatto di ottenerla più avanti nel gioco rispetto a Brotherhood ti porti ad imparare ad utilizzare le altre opzioni offensive.
Si tratta di un altro ottimo capitolo anche se differente rispetto al precedente: più scripted e story-focused piuttosto che un open-world power-fantasy. Nel prossimo le cose continueranno ad evolvere in questa direzione.
Assassin’s Creed III
Assassin’s Creed III è il titolo che ha fatto nascere la tiritera del “è da qualche anno che Assassin’s Creed non è un buon gioco” che annualmente appare con l’uscita di un nuovo titolo. È praticamente da quando è uscito che non faccio altro che sentire critiche contro questo capitolo.
Giocandoci ho probabilmente capito il perché.
Assassin’s Creed III è un ritorno totale alle formule, meccaniche e tematiche del primo capitolo piuttosto che del secondo e dei suoi sotto-seguiti. Andando con un semplice elenco:
- tornano i dubbi morali, che erano totalmente scomparsi dalle avventure di Ezio: qui, quando uccidiamo un obiettivo, il dialogo post-mortem ci mostra il suo punto di vista sulla vicenda e generalmente non è quello di un pazzo megalomane — come tutti quelli a cui Ezio ha detto l’iconico “Requiescat in pace”- ma semplicemente un individuo dall’altra parte della barricata, spesso mosso dalle stesse intenzioni del protagonista. Il protagonista è più dubbioso rispetto ad Ezio, così come lo diventava Altair nel primo capitolo, ed è più propenso a mettere in dubbio il suo operato (Ezio mostrava qualche piccolo, infinitesimale dubbio solo in Revelations)
- lo stile enfatizza il realismo, al contrario di Assassin’s Creed II che esteticamente richiamava i film di animazione della Dreamworks. La camera è più vicina sul personaggio (come nel primo capitolo) e generalmente ci il focus è più “stretto”, più ravvicinato
- come in Assassin’s Creed eravamo nel bel mezzo delle crociate, qui siamo nel mezzo della guerra di indipendenza americana. Il focus narrativo è sempre la guerra, le motivazioni delle due fazioni e le vittime che ci finiscono in mezzo; anche in questo caso siamo distanti dalle lotte di potere e le cospirazioni della saga di Ezio
- anche il modo di attraversare gli ambienti è più dispersivo rispetto ad Assassin’s Creed II, così come lo era nel primo capitolo: tra un capitolo e l’altro c’è tanta terra da percorrere con qualche side-quest. Non che sia una cosa positiva: è una scelta che rende la vastità dell’ambiente ma ti fa preferire il fast-travel (che però non è molto intuitivo da utilizzare)
Rispetto al primo episodio, Assassin’s Creed III ne è l’opposto in quanto a feel cinematografico: se il primo cercava in tutti i modi di togliere le cut-scenes (tutto era interattivo in qualche modo), questo è estremamente cinematografico anche durante il gameplay (con delle sequenze speciali per le counter-kill multiple) e, per certi versi, anticipa l’uso della telecamera di The Last of Us.
Giocandolo, ho capito che è proprio dall’ambizione narrativa che nascono le critiche rivolte a questo capitolo. È stato criticato per il pacing perché i critici hanno sostenuto che ti faccia giocare per un tutorial di circa 10 ore. In realtà è semplicemente che il gioco preferirebbe quasi non essere open-world per concentrarsi invece sulla trama.
Tutto è incentrato sulla narrazione e sul raccontare qualcosa di importante. Certo, non è lo swashbuckler da popcorn che piace tanto alla critica USA, ma è anche vero che è un gioco “francese” (per quanto lo possa essere un franchise che necessità l’apporto di studi in tutto il mondo per essere realizzato) e noi europei abbiamo anche qualche canone narrativo differente. Ho apprezzato molto Assassin’s Creed III per il suo tentativo di farmi riflettere sul prezzo delle rivoluzioni e della politica (molto interessanti gli scambi con Sam Adams dopo le prime battaglie sull’importanza della manipolazione delle informazioni).Ho ugualmente apprezzato il twist del doppio personaggio utilizzabile e del fatto che si rivela essere un templare. È un’ulteriore evoluzione del tema dubbio e del duplice punto di vista che ACIII riprende dal primo capitolo. La vicenda di Connor è quanto di più moralmente complesso la saga ha offerto dalle gesta di Altair e l’amarissimo epilogo ne è la conferma: vedere gli indiani espropriati delle terre per cui avevano (e avevamo) combattuto e il popolo americano che incita alla libertà mentre contemporaneamente compra degli schiavi riesce a mettere in dubbio tutte le azioni compiute durante il gioco.
Ed è in questo che probabilmente ha ucciso il pubblico che ha adorato le gesta di Ezio: Assassin’s Creed III non è una power-fantasy, semmai ne è l’opposto.
Il rapporto di Connor con il padre (che ho trovato molto riuscito) e le riflessioni che questa relazione stimola, il continuo dibatto sulle intenzioni e le azioni, sugli ideali e la realtà è estremamente stimolante ma di conseguenza provoca un distaccamento dalla storia: in una qualsiasi fantasia vorremmo essere l’eroe dalla parte del bene (o l’antieroe chiaramente dalla parte del male) ma qui siamo bloccati in una struggente situazione di dubbio.
Gli assassini appaiono deboli, confusi, i loro ideali distanti dalla realtà e fossilizzati su una faida di secoli mentre i templari appaiono più vicini a volere il meglio (non il bene) per le persone. È una narrazione molto interessante che fa riflettere anche sul mondo reale.
È ironico che a fronte di questo sforzo narrativo (e produttivo) il gioco sia più cinematografico in-game che durante le cut-scenes. La regia di queste ultime è piuttosto scialba e poco convincente (a differenza della saga di Ezio) mentre la parte giocata si distingue per la dinamicità nell’uso della camera.
Dunque, tutto il male di Assassin’s Creed III viene dal fatto di non soddisfare la fantasia di potenza degli utenti? Si e no, perché a dire il vero ci sono anche dei problemi di gameplay:
- il pacing è più minato dalla vastità dispersiva di alcuni ambienti di gioco piuttosto che dalla progressione narrativa (che invece ho sempre trovato interessante)
- il grande livello di dettaglio nell’ambientazione è un arma a doppio taglio perché spesso ci si trova infastiditi dalla scarsa giocabilità dell’ambiente (è veramente odioso trovarsi incastrati in parti dello scenario o il dover attraversare lunghi spezzoni di natura prima di arrivare all’azione che ci interessa; nota di demerito a parte per i cavalli: li odio)
- i mini-giochi gestionali sono spiegati molto male dai tutorial all’interno del gioco e hanno un appeal molto scarso. Se nei precedenti AC mi sono divertito a gestire la mia squadra di assassini o a comprare proprietà per arricchirmi, qui l’ulteriore layer di difficoltà mi ha inibito immediatamente
- manca di verticalità. Ho speso più tempo per terra che non sui tetti dei palazzi e questo non mi era mai successo prima nella serie
Prima delle conclusioni, prendo nota di qualche altra caratteristica che ho notato dal punto di vista del gameplay :
- le missioni “Liberation” in giro per le città sono l’esatto equivalente delle mini-missioni da svolgere nel primo episodio in preparazione di un omicidio. Per equivalente intendo che sono praticamente le stesse (in primis quelle dove bisogna pedinare qualcuno per rubargli un documento e quelle che prevedono l’omicidio di un particolare NPC)
- tutte le side missions sono completamente opzionali: ho finito il gioco senza farne praticamente una e non ho mai dovuto ricorrere a negozi o simili per migliorare il mio equipaggiamento. Ribadisco: praticamente è possibile giocarlo come se si trattasse di un action adventure alla Uncharted (con però più tempi morti dati dalla natura open delle mappe di gioco) e poi estendere il tempo di gioco facendo le varie side quest.
- come nel primo AC è impossibile rifarsi l’energia (addio fiaschette di Ezio) e si torna all’auto-rigenerazione. Non cambia molto (il livello di sfida è un po’ più alto) ma è un altro segno di affinità con il primo capitolo
In conclusione, forse questo è stato il punto della maratona in cui mi sono realmente innamorato della serie. Assassin’s Creed III è per molti versi un titolo frustrante, pesante da giocare e noioso in alcuni frangenti ma è contemporaneamente uno dei capitoli più interessanti, quelli che mostrano che la serie non è solo li per incassare ma che i team di sviluppo provano anche a dire qualcosa di interessante, osano al punto da estraniare il giocatore pur di raccontare una storia da un punto di vista (per un videogioco) “inedito”.
Assassin’s Creed III: The Tyranny of King Washington
Tutto il divertimento mancato in Assassin’s Creed III viene riversato in Tyranny of King Washington. Questa serie di 3 DLC avrebbe sinceramente dovuto essere stand alone visto quanto è divertente. Fondamentalmente è lo spin di Assassin’s Creed durante la moda dei DLC “total conversion” sulla falsariga di Red Dead Redemption: Undead Nightmare e Infamous: Festival of Blood.
Tyranny of King Washington introduce una premessa di “storia alternativa” dove George Washington viene corrotto dal potere della Mela dell’Eden e si auto nomina Re Washington dominando con pugno di ferro una terra ormai ridotta allo stremo. A combattere questa situazione c’è Connor, non in versione assassino ma “super-nativo americano” grazie ad una serie di abilità che gli vengono man mano conferite dagli spiriti guida animali.
Questi poteri cambiano in maniera fondamentale il modo in cui si gioca ed eliminano i problemi che avevo riscontrato nel gioco principale: la “giocosità” del pacchetto aumenta, gli ambienti sono più contenuti e quindi più giocabili, con il potere dell’aquila il gioco riacquista verticalità e con lupo e orso aumenta l’interattività e la strategia in battaglia.
È interessante come a livello narrativo si sia scelto di strutturarla come una serie televisiva in tre episodi (con tanto di video recap all’inizio e cliff-hanger alla fine di ogni capitolo). In questo modo si rafforza l’approccio al gioco lanciato da Assassin’s Creed III (e, in parte, da Revelations) che diventa sempre meno open-world e più story driven.
In generale le modifiche lo avvicinano ancora di più a Tenchu (l’aquila è l’equivalente del rampino di quel grande classico dello stealth) e ciò mi ha fatto godere non poco.
Narrativamente me lo sono proprio goduto, con un plot che si dipana mostrando la desolazione della tirannia del re che comunque continua a mascherarsi dietro gli ideali di libertà (Io sono la libertà, io sono il popolo) — rinforzando così ulteriormente i temi del gioco principale — e lanciando qualche accenno alla politica imperialista statunitense (o me lo sono sognato io).
Il setting è affascinante da esplorare e trovate come la piramide di Washington non fanno altro che aumentare la curiosità di esplorare questo nuovo mondo. Figo e basta.
Assassin’s Creed: Liberation
Terminato il terzo capitolo mi sono buttato su questo criticato episodio, rilasciato prima per Playstation Vita e in seguito anche sulle console da casa in una versione rimasterizzata in HD.
La critica principale a Liberation, a tutti gli effetti un capitolo parallelo alle vicende di Connor, riguarda la scarsa varietà delle missioni e la bassa fantasia di quelle presenti.
Effettivamente per le prime 4 sequenze (le più lunghe, visto che poi il gioco accelera brutalmente) si ha molto l’impressione di correre da una parte all’altra di New Orleans senza molto da fare e che molto contenuto sia in realtà del filler. Poi, con l’introduzione del Messico il gioco riceve una sorta di scossa e migliora sensibilmente.
I momenti migliori di Liberation HD mi hanno riportato ancor più dei suoi predecessori ai bei tempi di Tenchu: gli ambienti sono più contenuti, la meccanica del travestimento è interessante, le armi secondarie e le reazioni degli avversari sono molto divertenti (non so quanto volontariamente). Condisce questo sensazione vintage un doppiaggio più trash del solito (i doppiatori di alcuni avversari sono talmente comici da sembrare realmente fuori-posto).
Un aspetto che ha attirato molto la mia attenzione è come l’utilizzo delle mosse introdotte in Assassin’s Creed 3, in un contesto di game-design meno ultra-dettagliato (per forza di cose il design dell’originale aveva meno dettagli grafici rispetto ad AC3) renda di gran lunga più fluido il gameplay rispetto al titolo principale. A differenza della foresta attraversata da Connor, saltare sugli alberi per attraversare il bayou è sempre divertente, e le dimensioni ristrette dell’ambiente di gioco assicurano che non sia mai eccessivamente grande da annoiare.
L’ambientazione tra paludi e riti voodoo è affascinante e una gradita novità. Il plot funziona ed interessante (nonostante la rivelazione finale sia abbastanza scontata) soprattutto perché mostra una seconda volta la debolezza degli assassini del nuovo mondo (“sarà una caratteristica in tutta la tetralogia americana?” mi chiedevo durante il playthrough: “si” mi rispondo con senno del poi) e amplia a modo suo le tematiche del terzo: cosa significa veramente “libertà”? Esiste veramente? Può essere data, imposta? Ci sono veramente dei benefattori o stiamo sempre trattando con dei “mostri”?
Inoltre in questo caso il personaggio è nettamente diviso tra molteplici mondi opposti ed è quasi sempre vittima degli errori\orrori delle generazioni dei genitori, a cui lei sta cercando di porre rimedio.
Bello anche il tocco che mischia gameplay e narrazione con le tre differenti identità: vestita da nobile è quasi impossibile far salire il livello di guardia mentre da schiava si attira l’attenzione anche al minimo salto.
È però un capitolo molto breve (terminata la storia principale — 9 ore al massimo – non ci sono molte attività collaterali se non qualche oggetto collezionabile sparso per la mappa; niente NPC e niente side quests) e nonostante le varie chicche che ho elencato, permane il fatto che la prima metà del gioco sia costituita da molto filler e alla fine l’impressione è di un titolo ok che però non è riuscito a sfruttare il suo vero potenziale.
Assassin’s Creed IV: Black Flag
L’ultimo titolo della serie ad avere il numero nel titolo, è anche il più differente di tutti i gli Assassin’s Creed ad essere pubblicati fino a quel momento.
Mentre lo giocavo pensavo “questo è il capitolo che mi è piaciuto di più assieme a Brotherhood”. Fondamentalmente mischia le caratteristiche migliori di Assassin’s Creed 3 (le battaglie navali e la mobilità nella natura) e Liberation (l’ambientazione più caraibica, le rovine maya e l’atmosfera misteriosa delle paludi) e le inserisce in ambienti più “giocosi” prendendo ispirazione dalla struttura di Legend of Zelda: The Wind Waker.
Rispetto al terzo capitolo, le varie città e ambientazioni non sono inutilmente vaste ma si rivelano dei mini-mondi ben costruiti, concisi e densi di possibilità ludiche. Attorno a questi mini-mondi, l’overworld rappresentato dall’oceano non è mai un tedio ed è sempre un divertimento: sconfiggere le varie navi per inserirle nella propria flotta o semplicemente per depredarle è una vera gioia, così come immergersi nelle profondità alla ricerca di tesori nascosti. Suddividendo così le varie quest e side-quest in piccole dosi, gli sviluppatori sono riusciti a rendere decisamente più invitante l’idea di andare a esplorare ogni parte del gioco per svelarne i segreti.
Quando ci si stufa e si vuole seguire la storia principale, il fast travel è sempre disponibile per precipitarsi al centro dell’azione (esattamente l’opposto di Assassin’s Creed III).
A livello narrativo si è tornati allo swashbuckler di azione-avventura, dove l’avventura fa da padrone grazie anche ad un MacGuffin antico-sovrannaturale del genere che ci si può aspettare in un Indiana Jones\Tomb Raider. Mettendo in secondo piano il confronto tra assassini e templari (sempre piuttosto vuoto, se non quando sfruttato per le implicazioni politico\morali), Assassin’s Creed 4 ha il pregio di concentrarsi su un personaggio dalla morale costantemente mutevole, che entra nel conflitto sopracitato solo per caso — mentre cerca di conquistarsi la sua fortuna a suon di truffe, saccheggi e omicidi- e sull’avventura che lo porterà a rivalutare il suo modo di vivere, l’idea di famiglia e le appartenenze in generale (amici, compagni d’armi etc.). Il plot è coinvolgente e non intacca mai il piacere di gioco pur non essendo una vera e propria power fantasy come il secondo capitolo. Siamo più dalle parti dell’avventura picaresca seppur con una componente seriosa di sguardo “sulla fine di un epoca” — che marca tutta la seconda metà del gioco. L’unica cosa che mi ha lasciato un po’ perplesso l’idea di redenzione tramite l’appartenenza ad una setta che appare sul finale.
Infine, le sequenze ai giorni nostri sono tenute al minimo indispensabile, quasi totalmente skippabili e ringrazio i programmatori per questo. Quello che è obbligatorio, è breve e interessante, quindi ancora meglio.
A livello di gameplay, Black Flag raffina le meccaniche dei vari Assassin’s Creed e porta il giocatore ad interpretare un ruolo utilizzandole tutte in un modo coeso e sensato.
C’è in parte un abuso delle missioni di pedinamento (cosa su cui i recensiori dell’epoca avevano posto l’accento in senso negativo) e concordo che verso il finire del gioco iniziano un po’ a stancare per abbondanza ma in realtà sottolineano il miglioramento delle meccaniche stealth di questo episodio: il modo in cui sono costruite le varie sezioni, costringendo il giocatore e muoversi rapidamente di cespuglio in cespuglio per poi arrampicarsi in fretta sugli alberi senza venire individuati, rendono molto l’idea di furtività e illegalità e sono molto d’atmosfera.
A proposito di atmosfera, ho anche notato gli ulteriori passi fatti verso un’ancora maggiore “cinematograficità”, con un molte di sequenze d’inseguimento o combattimento spettacolari (un po’ sul modello di Uncharted 3).
In conclusione, Assassin’s Creed IV: Black Flag è stato un ritorno alla “ludicità” della serie, confezionato ad hoc per “piacere alla folla” ed intrattenere alla grande.
Una chicca: ho apprezzato che l’ultima missione sia una sorta di concentrato del primo Assassin’s Creed, con l’obiettivo di raggiungere tre differenti location, arrivare al nascondiglio degli assassini per prendere la missione, portarla a termine indisturbato e infine scappare senza lasciare tracce. Figo.
Assassin’s Creed: Black Flag — Aveline Mission
Il primo dei due DLC single-player per Black Flag, conferma l’idea che mi ero fatto sull’influenza di Liberation su questo capitolo della serie, concentrandosi su un avventura totalmente a sé stante con Aveline come protagonista.
È praticamente un livello suddiviso in tre sotto-missioni, con una progressione estremamente lineare (è proprio vecchia scuola) ma molto ben ritmata, che vede Aveline rispondere ad una richiesta di Connor per andare a liberare una prigioniera da un forte a Rhode Island.
Diciamo che è breve ma intenso, molto curato e divertente. Si finisce in un oretta e mezza (praticamente un filmetto) ed è strutturato con un buon mix di stealth e esplorazione plattform proprio come i momenti migliori di Liberation. Non so perché, ma mi si è fissato in testa come un revival dei giochi PsOne. Boh!
Assassin’s Creed IV: Freedom Cry
Freedom Cry è fondamentalmente una versione “lite” di Assassin’s Creed 4: Black Flag e, all’epoca dell’uscita, è stato accolto così positivamente da farlo diventare una release stand-alone.
Le due principali differenze con il gioco principale sono
- la meccanica di gioco che prevede di liberare gli schiavi per sbloccare bonus e potenziamenti. Questa poi si declina nelle varie opportunità di liberazione che culminano con gli assalti alle piantagioni.
- Una mappa differente da esplorare pur mantenendo l’ambientazione del gioco principale.
È ben fatto ma non l’ho trovato memorabile e non mi ha emozionato molto fino al finale, dove invece mi è rimasta impressa la sequenza della nave che affonda e del tentativo disperato di liberare più schiavi possibile: ricorda una sequenza simile in Uncharted 3 ma con un grande peso emotivo (qui ci sono i vari schiavi legati dalle catene che cercano di liberarsi dal loro macabro destino) che serve a giustificare la violenza del finale.
Assassin’s Creed: Rogue
L’ultimo della serie per Ps3 e probabilmente il mio episodio preferito ed è per questo che ho qualche difficoltà a parlarne: anche rileggendo gli appunti che ho preso durante le partite, traspare un livello di entusiasmo che non ho avuto per gli episodi precedenti.
Rogue è fondamentalmente il best-of degli Assassin’s Creed per la precedente generazione di console: c’è la navigazione di Black Flag, la conquista dei territori e la gestione degli immobili come in Brotherhood (i miei due episodi preferiti fino ad questo punto) uniti con le possibilità di movimento di Assassin’s Creed 3 e le basi del gameplay consolidate a partire a Assassin’s Creed 2.
Ho trovato il game design praticamente perfetto, leggermente più da “videogioco classico” rispetto agli altri capitoli:
- le missioni della trama principale sono varie (ad esempio non ho dovuto ripetere all’infinito le missioni di pedinamento che appesantivano Black Flag) e il gioco ha la giusta durata — mixando missioni open-world con altre più cinematografiche e più pilotate (come la spettacolare fuga durante il terremoto)
- le missioni secondarie sono praticamente dei mini-livelli in sé ( pur perfettamente integrati con l’over world) che ti permettono di affrontare una situazione nel modo che preferisci. Ho avuto la sensazione di essere messo di fronte ai mini-ambienti bilanciati per la missione come accadeva nei primi Tenchu
- il gioco ti fornisce un sacco di strumenti ed elementi di gioco con cui sbizzarrirti — ed è una figata sbizzarrirsi. Messo di fronte alle sfide dei singoli ambienti sei portato a pensare a come affrontare al meglio la situazione facendo uso di tutti i gadget e abilità a disposizione e non solo “spammando” le cose più efficaci
- la presenza degli Assassini come nemici e il fatto di doversi difendere da loro rende le sequenze stealth ancora più interessanti, aggiungendo quel giusto livello di tensione
- le aggiunte al combattimento navale sono fantastiche: la nave si controlla ancora meglio, i combattimenti sono più frenetici e le due tipologie di navigazione, fluviale e nei mari dell’artico (con il fatto di poter distruggere gli iceberg a nostro vantaggio), arricchiscono la varietà del gioco. Il fatto di poter venire abbordati e di dover difendere la nostra nave è la ciliegina sulla torta
- le uccisioni principali non sono su delle vittime più o meno inconscie della nostra presenza ma sono dei veri e propri boss di fine livello — gli assassini del gruppo di cui facevamo parte, con delle loro abilità speciali che si traducono in pattern di attacco o sequenze particolari. Sconfiggerli è una figata.
Il mio entusiasmo si estende anche alla trama:
- mi ha coinvolto, mi ha dato un protagonista con cui simpatizzare e con cui condividere un obiettivo (sto ancora cercando di capire perché diversi recensori hanno parlato di “ennesima trama di vendetta” quando siamo presenza di un personaggio che la vendetta non la cerca affatto).
- giocandoli in sequenza, mi è piaciuto moltissimo il device narrativo con cui il gioco riesce a unire tutti gli avvenimenti della “tetralogia americana” e a rilanciare verso Unity. In particolare giocare il finale di Rogue e poi iniziare Unity è incredibile: la tensione in Unity si alza a livelli di thriller hitchcockiano, visto che noi sappiamo già cosa succederà — siamo stati noi il colpevole!
- lo sviluppo narrativo trae le conclusioni di tutte le vicende americane, distruggendo l’idea di un credo e mettendo in primo piano il singolo uomo con le sue intenzioni, i suoi desideri e i suoi difetti. Il cambio di prospettiva che vive il protagonista di Rogue fa riflettere sul fatto che che gli uomini possano fare cose giuste o sbagliate e che le intenzioni di entrambi i “credi” siano ammantate dall’idea di fare del bene.
Se non si fosse capito, adoro questo gioco.
Assassin’s Creed Unity
Finito Rogue mi tuffo in Unity, il capitolo più odiato assieme ad Assassin’s Creed III. Il problema di Unity però non risiede in dei difetti strutturali di gameplay ma nel singolo, piccolissimo problema di essere stato venduto incompleto e ancora pieno di bug. Inutile dire che più di un anno di distanza, tutte le patch installate fanno il loro lavoro l’esperienza è ben diversa.
La prima cosa che ho notato, dopo il gioco narrativo che ho descritto parlando di Rogue è che graficamente spacca la mascella. È stiloso, ricco di giochi di luce e di dettagli, la folla inferocita è impressionante e, in generale, il gioco fa di tutto per calarti nell’atmosfera della Francia Rivoluzionaria.
Giocando poi, l’attenzione si sposta su una miriade di elementi più o meno nuovi, più o meno modificati. Sono tanti dettagli che rendono Unity probabilmente il capitolo più “differente” della serie:
- è il terzo ritorno ad uno stile “realistico” (c’è questa ambivalenza in tutta la serie: il primo, il terzo e Unity hanno queste caratteristiche) e lo si percepisce nel flow del gioco e soprattutto del combattimento. La fisica è totalmente differente rispetto ai precedenti (e futuri, aggiungo avendo finito Syndicate) episodi: la corsa è più lenta e il combattimento è più difficile e meno meccanico. Ho apprezzato molto il fatto di non poter più inanellare kill-streak a ripetizione, rendendo quindi il combattimento realmente una sfida e incentivando di conseguenza lo stealth e l’utilizzo dei gadget. Entrare in combattimento senza far uno di bombe a gas o simili equivale ad un suicidio
- a questo proposito, il livello di difficoltà è molto più elevato dei giochi precedenti e questo ti costringe a focalizzarti più sull’essere furtivi
- c’è una grande enfasi sulla tridimensionalità degli ambienti, grazie all’introduzione di ambienti interni e non solo esterni. Questo permette al gioco di uscire per la prima volta dal solco del game design alla Tenchu
- i nuovi controlli per il parkour funzionano molto bene, il movimento è fluido e si controlla con meno imprecisione rispetto al passato
- con la nuova gestione delle folle, Unity fondamentalmente realizza la promessa fatta dalla primissima cut-scene introduttiva del primo Assassin’s Creed: un uomo si muove nella folla per avvicinarsi al suo obiettivo e ne esce correndo per ucciderlo. In Unity possiamo fare esattamente questo e devo dire che ciò regala molta soddisfazione
- le missioni con l’obiettivo di uccidere un’obiettivo importante sono state totalmente rinnovate. Per la prima volta nella serie dopo il primo episodio torna l’idea della preparazione prima dell’omicidio designato ma, fortunatamente, qui il tutto è focalizzato — non si tratta di fare micro-missioni e mini-giochi nell’ambiente slegati dal compito finale, ma bensì di esplorare l’ambiente e portare a termine dei compiti per creare le situazioni giuste per l’omicidio e la relativa fuga. Dà più soddisfazione e ricorda ancora maggiormente Hitman.
Narrativamente ha un sapore fortemente hollywoodiano, ma non tanto della Hollywood attuale, quanto quella dei classici melodrammi di cappa&spada dei bei tempi andati, aggiornati ai giorni nostri:
- a livello di struttura narrativa, Unity è un murder mystery con elementi da thriller hitchcockiano, con un “innocente in fuga” nel tentativo di ripulire il nome e incastrare il vero colpevole. La storia d’amore (con un tocco di Romeo e Giulietta visto che uno è un assassino e l’altra una templare) si inserisce perfettamente in questa tipologia di storia, così pure come il “lusso visivo”, l’immagine barocca di Parigi, che ci presenta il gioco
- l’influenza hollywoodiana si respira anche nella scelta di eliminare due elementi iconici della serie, la corsa nella realtà virtuale durante i caricamenti e i dialoghi “surreali” nella realtà virtuale dopo ogni omicidio. Quest’ultimi sono stati sostituiti da delle sequenze che ricordano lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie dove Arno, il protagonista, vede frammenti del passato della vittima (per i più nerd, sembra che il potere sia dato dalla “visione” che hanno gli assassini, ma la cosa non è mai esplicita) che lo aiuteranno a risolvere il mistero principale
- ciò che lo separa dalla classicità hollywoodiana del mix tra swashbuckler, mystery e romance, non è tanto la caratterizzazione di Èlise (aderente ai canoni della lead femminile intraprendente dello swashbuckler post-”I Pirati dei Caraibi”) quando il mancato happy ending che porta ad un ribaltamento narrativo rispetto ad Assassin’s Creed 2. All’uscita numerosi critici hanno notato che Arno è per molti versi il personaggio più simile a Ezio per caratterizzazione ma se ne discosta per alcuni aspetti cruciali: è profondamente monogamo, non agisce per vendetta ma per senso di colpa e non ha un gran interesse o senso di appartenenza per la setta degli assassini. Il risultato? Se Ezio diventava il Gran Maestro, Arno viene espulso dalla setta. Se con Ezio la Power Fantasy era pienamenta realizzata, con Arno viene uccisa. Non è un caso che l’unico dialogo post-mortem sia il finale: si riflette sulla futilità del conflitto, sull’assurda lotta di ognuno per lasciare il proprio marchio sul mondo impegnandosi però in conflitti che nessuno ricorderà mai. È un messaggio forte per un gioco a tripla A, categoria spettacolare nella quale il giocatore veste solitamente i panni del salvatore del mondo. Qui, in Assassin’s Creed Unity, sei uno tra i tanti e ciò si riflette anche nel rapporto di Arno con la rivoluzione francese — se vestendo i panni di Ezio eramo la forza principale di azione contro i Borgia, qui la rivoluzione rimane uno sfondo alla nostra vicenda, non ne influenziamo le sorti se non in rarissimi casi dove ci limitiamo a vedere con leggero anticipo gli avvenimenti storici (come ad esempio nella sequenza con Robespierre).
Per chi ne è rimasto scottato all’uscita, merita una rivalutazione.
Assassin’s Creed Unity: Dead Kings
Bella continuazione della storia principale di AC Unity. Se il finale di Unity rispecchiava in parte l’amaro di una rivoluzione fallita e l’abbandono delle “ragioni di vita”, questo è il percorso nell’oscurità che bisogna fare per ritrovare un motivo per combattere e un ideale per il futuro.
Arno è letteralmente inseguito dai fantasmi in una città che sembra più uscire da Dark Souls che da un episodio regolare di AC.
Ho trovato interessanti le nuove meccaniche introdotte (il fatto di dover ammazzare il leader per spaventare o far fuggire gli altri della banda, le lotte di massa con parecchi nemici che ti circondano e ti riempiono di botte, l’utilizzo della torcia per la risoluzione degli enigmi — cosa che mi ha ricordato per l’ennesima volta nella serie i Tomb Raider classici) e soprattutto ho apprezzato l’ulteriore tridimensionalità della città che si estende tanto in superficie quanto sottoterra. È probabilmente una delle cittadine più complete che ho mai visto in un videogioco, un vero e proprio micromondo.
Il plot con il bambino e il suo scambio costante di battute con Arno ha un non so che di Spielberghiano e il finale di rilancio apre un po’ di speranza.
Un buon cappello, con una nota positiva a chiudere l’esperienza di Unity.
Assassin’s Creed Syndicate
Confesso: l’Inghilterra Vittoriana è il mio periodo storico preferito e Syndicate è praticamente il gioco che realizza tutte le mie fantasie vittoriane.
Assassin’s Creed Syndicate è un ritorno agli elementi classici della serie dopo le variazioni di Unity e si possono notare alcune cose sin dai primi minuti di gioco:
- tornano tutte le caratteristiche dei classici AC assenti in Unity (corsa durante il caricamento e dialoghi post-mortem in primis)
- i dialoghi surreali post-mortem sono come quelli del primissimo AC con la vittima che ti guarda direttamente “in camera” mentre tu osservi in soggettiva
- sempre direttamente dal primo AC è il bagno di un oggetto bianco nel sangue della vittima uccisa (in questo caso una piuma)
La sensazione è quella che la serie è tornata ad essere più “giocosa” dopo l’approccio più “realistico” di Unity.
A livello di gioco, ciò che più cambia il ritmo di gioco e il modo di affrontare le situazioni è l’aggiunta del rampino. Questo singolo gadget (che mi porta nuovamente a citare il primo Tenchu) enfatizza ulteriormente la verticalità della serie e permette di affrontare in modo del tutto nuovo le sfide che si possono trovare vagando per Londra (mi ha riportato indietro di 15 anni in modo positivo, con la tecnologia dei giorni nostri).
A proposito della città, la metropoli inglese è assolutamente gigantesca, ben resa a livello di atmosfera e ricca di attività. Syndicate è il titolo che più di tutti gli Assassin’s Creed ha un feel alla Rockstar:
- l’utilizzo dei due personaggi in parallelo mi ha ricordato parzialmente GTAV (anche se la meccanica è differente)
- il rubare le carrozze e seminare il panico in città non può non far ripensare ad un qualsiasi GTA
- i siparietti narrativi con i personaggi secondari sono leggermente più comico-sarcastici rispetto al solito, avvicinandosi più allo standard Rockstar che hai precedenti episodi
- le meccaniche da western metropolitano che si instaurano tra inseguimenti in carrozza, sparatorie con revolver e l’intrusione di qualche mini-gun mi hanno risvegliato i ricordi di Red Dead Redemption (un po’ come i sopracitati dialoghi)
Influenze Rockstar a parte, il gioco è ricco di influenze ed elementi positivi, che lo rendono un’esperienza particolarmente piacevole e appagante:
- il fatto che ci sono i due personaggi permette di sviluppare due trame in parallelo entrambe interessanti e permette di gestire meglio il ritmo riducendo il senso di dispersione tipico degli open world games
- ora la narrazione si estende anche a tutte le missioni secondarie, ognuna con una sua storia — piccola o grande- da raccontare. In particolare, mi sono divertito molto con quelle di Dickens a trovare i riferimenti alle sue opere (“Il Mistero di Edwin Drood” sembra essere stato il prediletto dagli sviluppatori)
- i Dreadful Crimes (rispetto ai corrispettivi in Unity) sono evoluti al punto da essere quasi un gioco parallelo a sé stante. Sono molto stilosi e ben realizzati (a proposito di Rockstar, spesso la mente mi è tornata a L.A. Noire) e non mi dispiacerebbe averli ancora più integrati nello svolgimento regolare della trama.
- da Unity riprende l’ottima modalità gestione degli omicidi principali e li espande con più soluzioni possibili per ogni omicidio e più varianti. In tema di “riprese”, la conquista dei territori mi pare un’espansione delle basi di Rogue (riprese in originale da Brotherhood e Revelations)
- il sistema di avanzamento dei personaggi principali modello RPG stimola l’esplorazione e il fatto di portare a termine le missioni secondarie per potenziarsi mentre lo sviluppo della gang è semplificato rispetto alle complicazioni introdotte a modalità simili da Assassin’s Creed III in poi (l’homestead, la flotta, etc.) e ciò va a suo favore. Regala grandi soddisfazioni il fatto di vedere con i propri occhi la propria gang prendere man mano il controllo della città
- mi è inoltre piaciuto molto il fatto che nel Helix Rift ci sia una storia separata con un altra protagonista, una mini-vicenda di spionaggio sulla Prima Guerra Mondiale e parecchia backstory delle divinità di Assassin’s Creed (con il plot ambientato ai giorni nostri che sembra diventare sempre di più un racconto tra il bio e il cyber punk)
Narrativamente parlando è il capitolo che tocca più esplicitamente la politica (anche se gli assassini non si schierano mai apertamente) grazie anche alla progressione narrativa dei vari capitoli: Jacob va a colpire i punti in cui si organizza la società moderna (la medicina, i trasporti, la banca, la politica etc.) e Evie deve poi fare i conti con le conseguenze del suo approccio diretto alla risoluzione dei problemi tramite l’omicidio o dei veri e propri attentati.
I riferimenti cinematografici si sprecano — con un mix di influenze da Scorsese (Gangs of New York) e ancora Guy Ritchie (Sherlock Holmes), con un tocco di animazione americana e un avversario che sembra Daniel Day Lewis tra Gangs of New York e There Will Be Blood — ma vengono adottate anche delle soluzioni da “serial” (d’altronde siamo nell’era del binge watching) come il fatto che ogni capitolo abbia un’introduzione testuale che fa da recap del capitolo precedente e anticipazione del capitolo “entrante”, a metà tra la quarta di copertina e gli episodi di una serie televisiva.
È anche l’Assassin’s Creed con alcuni dei personaggi meglio tratteggiati in tutta la serie, in particolare Evie Fryeche è sinceramente uno dei più convincenti personaggi femminili che i videogiochi abbiamo visto fino ad ora.
Assassin’s Creed Syndicate: Jack The Ripper
Ultima tappa del mio playthrough (fino a quando non mi cimenterò con Chronicles), questo DLC è un vero e proprio gioiellino, abile a remixare i contenuti del gioco principale con una serie di nuove meccaniche. È, a mio avviso, l’espansione più ben sviluppata dopo (anche se direi alla pari) The Tyranny of George Washington.
Come in tutte le espansioni di AC, la trama scorre via come un film a sé stante, libera dal fatto di dover sostenere un open-game di parecchie ore di gioco.
Il racconto procede avvincente, con costanti cambi di punti di vista (Jacob, Jack Lo Squartatore e Evie) e mix gli stili di gioco, integrando completamente nella trama principale le sequenze di investigazione che erano esclusive dei Dreadful Crimes. Il plot è ovviamente legato alla “mitologia” di AC ma il mistero di fondo è ben studiato e ti tiene attento.
Ho trovato convincente la rappresentazione della prostituzione (almeno un videogioco dove non devi andare a prostitute) e mi è piaciuto che la protagonista sia ora una donna di mezz’età, uscendo nuovamente dagli schemi consolidati dei giochi a tripla A.
Infine, unendo narrazione e gameplay, le sequenze dove si controlla lo Squartatore hanno un doppio effetto: aumentare la tensione (in particolare prima della missione finale, dove sappiamo che stiamo tendendo una trappola a Evie) e nel farci sentire male, farci percepire che quello che facciamo vestendo i panni dello Squartatore è sbagliato. Ironicamente, ciò porta a riconsiderare l’uso di tattiche letali quando si vestono i panni di Evie.
A livello di gameplay l’espansione offre diverse nuove zone ben studiate e ricche di opportunità per divertirsi con gli strumenti a disposizione. A questo proposito sono interessante l’introduzione di strumenti non letali per combattere alcuni tipi di nemici e il nuovo Fear Factor, utile per far fronte a situazioni di grande inferiorità rispetto agli avversari. Sono aggiunte che sottolineano il feel da super-eroe presente in alcuni elementi della serie.
Belle anche le attività extra, che remixano quelle presenti nel gioco principale, aggiungendo un livello extra di difficoltà o una variazione sul tema.
Ma quindi, cosa ne penso?
Giocando a tutti gli episodi di seguito sono rimasto colpito per la qualità media mantenuta nel corso degli anni, per le coraggiose scelte artistico-narrative e per le costanti variazioni apportate alla formula base del gameplay.
Si, so che a fronte delle numerose critiche che la serie ha raccolto negli ultimi anni queste affermazioni possono sembrare una bestemmia, ma sono ragionevolmente sicuro di ciò che dico.
Assassin’s Creed riesce sempre, anche negli episodi peggiori, a costruire diorami storici estremamente complessi, da esplorare e osservare a nostro piacimento. Il livello di immersione mi ha impressionato dal primo all’ultimo capitolo vista la costante attenzione al dettaglio e l’abilità a rendere un’atmosfera.
È sempre la stessa atmosfera?
No, Assassin’s Creed ha due anime, e questo è probabilmente il principale problema con pubblico e critici: c’è un Assassin’s Creed più “realistico” (passatemi il termine) per ambientazioni, abilità a disposizione, storia etc., quello che ti vuole anche far pensare e magari anche sperimentare qualche novità, che è composto dal primo capitolo, dal terzo e da Unity; a lato c’è l’Assassin’s Creed più ludico, quello che vuole più divertire a tutti i costi e vuole rifinire le meccaniche già sperimentate, che è composto dalla trilogia di Ezio, da Black Flag\Rogue e Syndicate.
Il pubblico ama il secondo ed è sempre deluso dal primo. Anche a ragion veduta (i difetti strutturali del primo e del terzo sono innegabili così come sono stati gravi i problemi al lancio di Unity) ma la serie non può reggersi senza quei capitoli perché da essi trae sempre nuova linfa, nuovi spunti per rinnovarsi. In quei capitoli ci sono le scelte più “estreme” (stiamo pur sempre parlando di una serie che comporta investimenti economici enormi per ogni singolo capitolo, quindi non aspettiamoci libertà artistiche avant-garde) che spesso non sono ruffiane abbastanza per ingraziarsi un pubblico abituato a vestire sempre i panni del “migliore dei migliori”.
Il gameplay è sempre lo stesso? Non proprio. I macro-tratti distintivi rimangono inalterati da episodio a episodio (d’altronde è una serie, non è che Batman sia molto cambiato negli ultimi 75 anni) ma vengono modificati da tweak costanti di episodio in episodio, conferendo ad ogni capitolo un suo carattere. Ad esempio: nel primo capitolo scalare le torri era una delle sfide principali del gioco, ognuna caratterizzata da una sua architettura da sfidare e conquistare, quasi come scalare i giganti in Shadow of the Colossus; le torri quasi scompaiono in Assassin’s Creed 3 e basta premere il tasto del rampino in Syndicate per essere catapultati immediatamente sulla cima. Se in alcuni capitoli la Eagle Vision può essere mantenuta perennemente attiva, in altri (Unity) funziona come un sonar da attivare di tanto in tanto, modificando completamente l’approccio delle missioni standard, come il pedinamento. Potrei continuare per ore, ma credo vi siate fatti un’idea.
E la mania di riempire le mappe di attività? Beh, in realtà gli sviluppatori riempiono i mondi creati di attività opzionali (suppongo anche per non “sprecare” l’enorme lavoro fatto utilizzandolo come mero sfondo), sta al giocatore scegliere in cosa avventurarsi e in cosa no. Personalmente ho sempre portato a termine le missioni e compiti che più mi coinvolgevano senza alcuna mania di completamento al 100%. Conosco amici che si sono impuntati per avere il 100% in ogni capitolo ma è una scelta personale che non ha modificato il godimento del gioco. È solo che, finita la storia principale, puoi continuare ad esplorare il diorama coi tuoi tempi, senza essere costretto ad assalire civili a random solo per combattere la noia.
È una serie di giochi perfetti? Assolutamente no. Sono impressionanti, come ho già detto, per volume, estensione e cura nell’atmosfera ma hanno spesso piccole o grandi imperfezioni (dipende dal volume di patch), indubbiamente frutto della complessità in fase di sviluppo e hanno da sempre un punto debole nel sistema di combattimento, che può essere più o meno riuscito, più o meno facile ma rimane sempre privo di un vero impatto (una lezione su come tirare castagne sonore la si potrebbe prendere dalla serie di Arkham). Syndicate è sicuramente nella giusta direzione sotto questo aspetto ma servirebbe un po’ più “peso” ai colpi e ai corpi.
A proposito di critiche: giocando alla serie e dando un occhio alle varie recensioni uscite nel corso degli anni, sembra che il leit-motiv della critica per tutti gli ultimi capitoli sia “è meglio di quanto non lo sia stata la serie ultimamente” ma lo si dice indistintamente da capitolo in capitolo. Andanto a ritroso, questo trend negativo è iniziato con Assassin’s Creed III (per Brotherhood e Revelations la critica era solo che riciclava molto da ACII) e confesso che, anche nella memoria del mio playthrough, il terzo capitolo mi torna in mente come quello con le sezioni più tediose assieme al capostipite della serie.
Ma anche in questi due casi, con due titoli con dei grossi problemi di gameplay e ritmo, premio la serie perché, ai miei occhi, è riuscita a farmi interessare e scoprire periodi storici che non ho considerato in precedenza, mi ha fatto riflettere e discutere con gli amici su temi come l’appartenenza a gruppi più o meno religiosi, il concetto di libertà e le sue conseguenze — con toni leggeri, certo, ma è pur sempre discutere! Inoltre la apprezzo perché nonostante i giga-budget e i mega-investimenti ha saputo sfidare le convenzioni dal punto di vista narrativo, andando oltre la semplice “power fantasy” che domina i più popolari franchise odierni e presentando spesso situazioni che sarebbero scomode e “difficili” che per le produzioni più “adulte” in altre forme mediatiche.
In generale non vedo l’ora di vedere dove andrà la serie nel prossimo futuro, e quale sarà la nuova ambientazione perché, questa volta, ci sarò fin da subito!
'Ho giocato di seguito a tutti gli Assassin’s Creed ed ecco cosa ne ho ricavato' non ha ancora commenti
Commenta questo articolo con un tuo pensiero